"rascel

«Io prendo manciate di parole e le lancio in aria; sembrano coriandoli, ma alla fine vanno a posto come le tessere di un mosaico».
(Renato Rascel)

lunedì 30 settembre 2013

"Le quattro giornate di Napoli - La rivolta contro gli occupanti tedeschi. 28 settembre - 1° ottobre 1943"


Per me non è solo una ricorrenza storica. E' parte della mia storia personale vissuta indirettamente attravero i ricordi e i racconti della mia famiglia. Vita vera, impressa nella mia memoria in modo indelebile. La paura, la miseria, i traumi, lo squallore dei ricoveri e l'indigenza incui riversava una città dal secolare fulgore, punto di riferimento culturale ed esempio di creatività e valore, sono  annullati da una guerra scellerata. 
In questo documentario Rai da "La Storia siamo noi" c'è tutta la passione dei napoletani che hanno sentito i dovere umano di ribellarsi trovando la forza nella rabbia e nel senso di libertà insito nella dignità umana.
Il video e il commento sembrano lo sfondo per il mio post "Perchè la guerra " che ho già pubblicato e che ripropongo, la giovane donna è mia madre che ritrovo nei personaggi di questo impareggiabile documentario.

"Una città sotto assedio, bersaglio dichiarato di tutti gli eserciti, degli alleati come dei nazisti. Questa è Napoli nei suoi giorni più difficili, dopo l'armistizio dell'8 settembre '43. La città vive ore drammatiche in attesa di una liberazione che non sembra arrivare mai mentre si susseguono distruzioni su vasta scala, rastrellamenti e deportazioni di civili da parte tedesca.
E così, dal 28 settembre al 1° ottobre 1943, i napoletani decidono di impugnare le armi e di combattere strada per strada, vicolo per vicolo contro gli ex alleati divenuti a tutti gli effetti occupanti. Alla fine, in più di trecento pagheranno questa scelta con la vita.
La cronaca di quelle quattro tragiche giornate rivive, ora per ora, nel documentario di Aldo Zappalà  premiato con Targa d'argento al merito del Presidente della Repubblica. È un racconto che ci riporta tra le strade del capoluogo campano proprio nel momento in cui la sommossa spontanea si salda alle azioni isolate della resistenza clandestina, in una sollevazione popolare che coinvolge senza distinzioni operai, intellettuali, ufficiali e soldati allo sbando.
Ma il dramma di Napoli, in realtà, è cominciato pochi mesi dopo lo scoppio della guerra, quella guerra che secondo la propaganda di regime avrebbe dovuto concludersi in poche settimane. E invece, tra l'autunno del 1940 e la primavera del 1944, Napoli subirà più di cento bombardamenti, da parte dell'aviazione inglese, americana ma anche della Luftwaffe.
Il più grave, il 4 dicembre del 1942, causa tremila morti, ma resta nella memoria collettiva anche quello che provoca l'esplosione della nave militare Caterina Costa, i cui resti vengono rinvenuti persino al Vomero, nella parte collinare della città. 
All'indomani dell'armistizio del '43, dunque, molti napoletani hanno lasciato la città, ma altrettanti sono rimasti, decisi a darsi un'organizzazione e ad opporsi alle autorità tedesche che il 13 settembre li minacciano apertamente: 'ogni soldato germanico ferito o trucidato verrà rivendicato cento volte', recita un bando dellaWermacht.
Dal 27 settembre inizia una vera e propria caccia all'uomo, senza distinzione d'età: diciottomila persone sono fermate, portate via, arrestate. I nazisti procedono anche alla distruzione sistematica delle fabbriche e del porto. Poi, alla notizia dell'esecuzione spietata di un giovane marinaio coinvolto nella resistenza, esplode la rivolta. In breve l'intera città è in prima linea, si alzano le barricate in tutti i quartieri e per quattro giorni i napoletani tengono duro fino a costringere i tedeschi alla resa.
Poche ore dopo, con l'arrivo degli americani, ha inizio il lungo e faticoso cammino verso la normalità, tra cumuli di macerie, apocalittiche eruzioni del Vesuvio, mercato nero, prostituzione ed epidemie, come quella di tifo petecchiale, che le autorità americane sconfigerranno solo irrorando quintali di DDT su oltre seicentomila napoletani."

PERCHE’ LA GUERRA?



Non ce lo ha mai detto direttamente, ma noi lo sapevamo, sapevamo tutto di lei.

Quando parlava con le sue amiche noi eravamo sempre con lei, molto spesso stavamo lì per curiosità, o per “educazione”, cioè era la buona educazione che lo imponeva.
Era interessante conoscere le banalità quotidiane delle famiglie delle sue amiche. A quei tempi, noi non avevamo la televisione così gli spettacoli ce li facevamo da soli. Ci erano utili quei momenti, attingevamo da lì le battute per gli sketch del nostro cabaret privato.
Nei momenti in cui i loro discorsi si facevano più interessanti, o meglio, più importanti per noi, mia madre improvvisamente ricordava di aver dimenticato una commissione o un accidente qualsiasi e con urgenza venivamo allontanate per uscire e svolgere il suo compito.
Proprio quella mancanza di garbo ci insospettiva tanto: era tutto chiaro. Sapevamo bene, e già da molto tempo, che era giunto il momento per levarci di torno, ci alzavamo senza batter ciglio. Facevamo finta di uscire, sbattevamo le varie porte, ritornavamo indietro in punta di piedi e ascoltavamo
 in silenzio.
Erano quasi sempre le stesse storie piene di sospetti tradimenti, presunte tresche, insomma, quello che ora liberamente circola sui nostri rotocalchi e in certi talkshow televisivi.
Da loro ho sempre saputo dell'esistenza di "festini", "party a luci rosse" e relazioni omosessuali, tutto studiato poi 
a scuola nelle biografie di scrittori e poeti illustri  o letti nei romanzi d'autore messi all'indice.

Perciò noi sapevamo sempre tutto!
Non ho mai capito come riuscisse a mantenere la sua ferma autorevolezza di mamma e la sua amichevole complicità col suo gioioso modo di considerarci sue amiche.
Con noi forse, anche lei scopriva il mondo. 

Era molto ingenua, nelle conversazioni "proibite" che ascoltavamo la sentivamo ripetere, con voce sinceramente incredula:"Ma no !? non è possibile, sono esagerazioni o fantasie di gente poco seria e cattiva, non si può credere a certe volgari fantasie. No, non dobbiamo crederci!"

Lei era ancora una ragazzina, aveva avuto la sua prima figlia a diciotto anni, (a quei tempi ci si sposava quasi adolescenti) e si era anche in un periodo in cui si doveva credere che i bambini nascevano sotto il famoso "cavolo" e avere un amichetto, cioè amico maschio piccolo, non era del tutto "per bene".


Aveva seguito suo marito in una città molto diversa dal luogo in cui aveva vissuto. Ci era arrivata un anno prima che iniziasse la seconda guerra mondiale e Napoli con la sua gente così viva ed allegra l’aveva conquistata subito.
Non aveva mai smesso di amarla, aveva 
sempre ammirato quel luogo di estrema bellezza, quella Via Caracciolo frequentata dai grandi personaggi, artisti, poeti, scrittori che si incontravano e si fermavano con la gente comune. Spesso raccontava  del grande Benedetto Croce, quel signore anziano che veniva a sedersi sulla sua panchina e giocava con noi come un semplice nonno e con lei si soffermava sulle cosiderazioni sociali del momento.
Ammirava quella gente che sapeva soffrire la fame, gli stenti con serenità, e nella distruzione e nel caos era sempre piena di speranza e orgoglio per un passato ricco di cultura e arte.

 La guerra crudelmente stava sgretolando tutto sotto i loro occhi, ma non si erano mai arresi.
I bombardamenti continui sulla città non impedivano ai napoletani rinchiusi nei ricoveri sotterranei di continuare a vivere e a sognare.
Lì sotto c'era tutto il quartiere che continuava a vivere, anche senza vedere il sole o sentire la brezza del mare. Le sue attività consuete animavano quel luogo squallido e affollato. Nella promiscuità assoluta ognuno dimostrava una apparente noncuranza per ciò che accadeva fuori.
C’era chi cantava le sue composizioni chiedendo il parere dei presenti, chi intonava motivi famosi, chi recitava poesie, chi dava lezioni di musica o canto e qualcuno anche quelle delle materie scolastiche: era "o professor". Molti svolgevano normali attività manuali, le donne lavoravano a maglia confrontandosi o si scambiavano pareri e consigli tecnici. C'era anche chi spettegolava, chi litigava e chi dormiva. I bambini tranquillamente facevano la loro solita vita. 

Tutto questo ce lo raccontava sempre, forse sapeva che non lo avrebbe mai dimenticato.
Ma ciò che le accadde quel giorno non ha avuto mai la forza di dircelo, di dircelo guardandoci negli occhi...

.....sì quel giorno aveva fatto tardi. Si era avviata all'ultimo segnale dell'orribile sirena che avvertiva dell'arrivo degli aerei con le loro bombe che mettevano in forse le sorti delle abitazioni lasciate così..scappando via senza un attimo di esitazione.
E sì che aveva sentito alla radio il temutissimo "Maria che si prepari" di Radio Londra, sapeva che doveva affrettarsi, essere veloce come il vento perchè c'erano molte probabilità di non farcela. 

Con una neonata e un'altra bambina di tre anni era proprio difficile prevedere tutto e prepararsi  per essere pronti a scappare.
Quella volta non ce la fece. Aveva affidato la maggiore delle mie sorelle con tutto il necessario di sopravvivenza ai suoi amici, le davano sempre una mano e tanto coraggio, così lei era rimasta a sistemare l'altra piccola di pochissimi mesi.

Era scesa giù con la bimba abbracciata forte a lei sotto la sua pelliccia, ormai diventata la sua seconda pelle, la indossava per quelle dannate corse due o tre volte al giorno e la teneva su ore ed ore laggiù in quella strana bolgia,  fino all'annuncio dello scampato pericolo.
Aveva sentito il frastuono degli aerei che si avvicinavano col loro carico di morte ed avanzavano a volo radente sparando all'impazzata.

Si era buttata giù per terra, appiattendosi sotto il marciapiede di una strada principale di Napoli tenendo la sua bimba stretta stretta a lei, pregava aspettando Sorella Morte.
Guardando verso il cielo vide "l'alleato americano", un ragazzo anche lui, ubriaco fradicio che sghignazzava e urlava a squarciagola. L'aveva presa di mira e sparava contro di lei preso dalla furia della sua esaltazione, divertendosi in modo scellerato, senza fortunatamente colpirla.
Stette lì immobile finchè l'altro non ritenne opportuno smettere con lei forse per cambiare divertimento.

Quando fu finita quell'incursione si alzò incredula per ciò che aveva vissuto e ancora con l'immagine di quel ragazzo che giocava con la sua vita e quella di sua figlia divertendosi e sollazzandosi, si avviò nella devastazione totale che la circondava.

Raggiunse gli altri, riabbracciò finalmente la sua piccola che aveva temuto di non rivedere mai più e tra l'affetto e le coccole di quella "gente tutto cuore" riprese la vita di sempre. 

Forse mia madre non ha mai dimenticato, ma anche noi non abbiamo dimenticato, anzi per me la sua disavventura è stata la ragione del mio odio per la guerra.
Lei non ci aveva detto niente, non aveva coltivato l'odio per quel soldato sciagurato  perchè sapeva che così è la guerra!


LA PAROLA GUERRA MI FA INORRIDIRE. COLPISCE PROFONDAMENTE SOLO GLI INNOCENTI ED ESALTA I MALI DELLA TERRA.



giovedì 26 settembre 2013

è autunno!

...cambia tutto lo scenario.
Luce diversa, meno accecante, più soft che mette in risalto la vita che trionfa intorno a noi.
Vita che si prepara ad affrontare i duri freddi dell'inverno. Tutto ci appare in colori nuovi ed affascinanti.

Odori forti ed inebrianti che ci portanoai tempi lontani.

Suoni e armonie sempre nuove, ma anche mai dimenticate che sembrano cullarci come da bambini nelle braccia della mamma.

...è il canto d'autunno che è dentro di noi. 
Sempre presente, vive dentro di noi e lo risvegliamo solo se ci fermiamo un attimo per far riposare il nostro animo.

Amo Charles Baudelair, l'ho sempre adorato, con lui i sentimenti non hanno età: è sempre attuale, giovane e profondo!

Ascoltatelo in questa incantevole lettura, gustate i suoni di quella lingua che amo tanto, così forte e melodiosa.
Non capirete il significato, perchè ahimè il francese non lo studia più nessuno, ma guardando il video gusterete l'incanto di una natura che è ancora presente.
Precisa e puntuale la traduzione del testo di  Luciana Frezza che ho ritrovato qui insieme ad una recensione ottima che val la pena leggere per meglio gustare questo capolavoro che riempie l'anima.


Vidéo de : Fée lidés
Mixage : Fée lidés & Doctor Ohm de Heavenly Creatures
Musique : Samuel Barber - Adagio for Strings
Voix : Janico


Chant d’automne
Da "Les Fleurs du mal - Spleen et Idéal - Charles Baudelaire"
I
Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres ;
Adieu, vive clarté de nos étés trop courts !
J’entends déjà tomber avec des chocs funèbres
Le bois retentissant sur le pavé des cours.

Tout l’hiver va rentrer dans mon être: colère,
Haine, frissons, horreur, labeur dur et forcé,
Et, comme le soleil dans son enfer polaire,
Mon coeur ne sera plus qu’un bloc rouge et glacé.

J’écoute en frémissant chaque bûche qui tombe
L’échafaud qu’on bâtit n’a pas d’écho plus sourd.
Mon esprit est pareil à la tour qui succombe
Sous les coups du bélier infatigable et lourd.

II me semble, bercé par ce choc monotone,
Qu’on cloue en grande hâte un cercueil quelque part.
Pour qui? - C’était hier l’été; voici l’automne !
Ce bruit mystérieux sonne comme un départ.


CANTO D'AUTUNNO


I

Presto c’immergeremo nelle fredde tenebre;
addio, vivida luce di estati troppo corte!
Sento già cadere con un battito funebre
la legna che rintrona sul selciato delle corti.

Tutto l’inverno in me s’appresta a rientrare;
ira, odio, brividi, orrore duro e forzato
lavoro e, come il sole nel suo inferno polare
il cuore non sarà più che un blocco rosso e ghiacciato.

Rabbrividendo ascolto ogni ceppo che crolla;
non ha echi più sordi l’alzarsi di un patibolo.
Il mio spirito è simile alla torre che barcolla
ai colpi dell’ariete instancabile e massiccio.

Mi pare, così cullato da questo tonfo monotono,
che una bara qui accanto si stia inchiodando d’urgenza.
Per chi? - E’ autunno: soltanto ieri era estate!
Questo suono misterioso sa di partenza.


II

J’aime de vos longs yeux la lumière verdâtre,
Douce beauté, mais tout aujourd’hui m’est amer,
Et rien, ni votre amour, ni le boudoir, ni l’âtre,
Ne me vaut le soleil rayonnant sur la mer.

Et pourtant aimez-moi, tendre coeur! soyez mère,
Même pour un ingrat, même pour un méchant ;
Amante ou soeur, soyez la douceur éphémère
D’un glorieux automne ou d’un soleil couchant.

Courte tâche! La tombe attend - elle est avide !
Ah! laissez-moi, mon front posé sur vos genoux,
Goûter, en regrettant l’été blanc et torride,
De l’arrière-saison le rayon jaune et doux !

II

Mi piace dei tuoi lunghi occhi la luce verdastra,
dolce beltà, ma oggi tutto per me è amaro,
e niente, nè il tuo amore, nè il fuoco, nè il tuo boudoir
mi compensa del sole che fiammeggia sul mare.

ma tu, tenero cuore, amami ugualmente!
Sii madre anche a un ingrato, anche a un perfido;
sorella o amante, sii la dolcezza effimera
di un autunno glorioso o d’un sole un tramonto.

Compito breve! La tomba aspetta: è avida!
Ah! lasciami, la fronte sulle tue ginocchia, gustare,
rimpiangendo l’estate bianca e torrida,
il giallo, dolce, ultimo raggio autunnale!

(Traduzione di Luciana Frezza)






giovedì 19 settembre 2013

... un pensiero ai miei amici e colleghi insegnanti.

... per i credenti e per tutti...
E' stata la mia invocazione nei momenti difficili, è la preghiera che ho finito per imparare a memoria, specialmente per alcuni versi che sembrano sintetizzare i momenti difficili della nostra missione. 
Per me ha rappresentato il viatico nel mio lungo percorso di vita nella scuola.
L'ho ritrovata qui nella rete.
La stessa che mi fu donata da un caro amico all'inizio della mia carriera ed io la regalo a tutti voi.

PREGHIERA DELL'INSEGNANTE

“Padre della Vita,
Ti prego per tutti i ragazzi e le ragazze
che mi sono state affidati durante questo anno scolastico.
Sento forte l'importanza della mia responsabilità educativa,
ma conosco anche i miei limiti e le mie incertezze.
Padre, donami una passione educativa
che possa plasmare il mio pensare,
il mio progettare, il mio agire;
concedimi l'entusiasmo necessario
per testimoniare l'amore del sapere,
la gioia della collaborazione, la fiducia negli altri;
rendimi capace di accogliere, guidare e incoraggiare
chi si affida a me ogni giorno;
donami la pazienza di attendere tempi educativi
che non sono i miei e che Tu solo conosci;
fa che la fatica, lo scoraggiamento e l'insuccesso
non permettano di chiudermi in me stesso,
ma mi aprano alla ricerca di prospettive sempre più ampie.
Padre, rendimi capace di comprendere
che il mio essere insegnante
è un grande dono”.



mercoledì 11 settembre 2013

CON TUTTO IL CUORE: TANTI AUGURI SCUOLA !

... mai come ora ne hai bisogno!
Nel mio surfing quotidiano mi sono imbattuta in  questo video di YouTube (http://www.youtube.com/watch?v=Dyk0H1_EXuU). Ve lo propongo, è adatto per tutte le età: ci siamo passati tutti.
Come dice Barbara Caci  che lo ha pubblicato, è un regalo.
...io l' ho accolto proprio come regalo ad una "vecchia" mamma , insegnante affetta da "sindrome scolastica acuta" che non smette di amare e odiare la scuola.



Ecco la presentazione del video con le raccomandazioni sempre valide di Abraham Lincoln.
Bene, è proprio quello che ho sempre pensato e sostenuto e per cui molto spesso anche lottando.

Pubblicato in data 11/ago/2013
"Un regalo per tutti i genitori, ma soprattutto per gli insegnanti che si prendono cura di bambini e i ragazzi con dedizione e considerano il loro lavoro come una "missione".
"Il carattere funzionale dell'insegnamento riduce l'insegnante a un semplice impiegato. Il carattere professionale dell'insegnamento porta a ridurre l'insegnante all'esperto. L'insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione.
Una missione di trasmissione.
La trasmissione richiede certamente competenza, ma richiede anche, oltre a una tecnica, un'arte.
Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l'eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi. L'eros permette di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono. È ciò che in primo luogo può suscitare il desiderio, il piacere e l'amore dell'allievo e dello studente.
Là dove non c'è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l'insegnamento.
La missione suppone evidentemente la fede, in questo caso la fede nella cultura e nelle possibilità della mente umana."
(Da Edgar Morin, "La testa ben fatta", Raffaello Cortina Editore)"

Lettera all'insegnante di suo figlio
(Abraham Lincoln Hodgenville, Kentucky, USA 12/2/1809 – Washington, USA 15/4/1865)

Dovrà imparare, lo so, che non tutti gli uomini sono giusti, che non tutti gli uomini sono sinceri.
Però gli insegni anche che per ogni delinquente, c’è un eroe;
che per ogni politico egoista c’è un leader scrupoloso
Gli insegni che per ogni nemico c’è un amico,
cerchi di tenerlo lontano dall’invidia, se ci riesce,
e gli insegni il segreto di una risata discreta.
Gli faccia imparare subito che i bulli sono i primi ad essere sconfitti.
Se può, gli trasmetta la meraviglia dei libri.
Ma gli lasci anche il tempo tranquillo per ponderare l’eterno mistero degli uccelli nel cielo, delle api nel sole e dei fiori su una verde collina.
Gli insegni che a scuola è molto più onorevole sbagliare piuttosto che imbrogliare.
Gli insegni ad avere fiducia nelle proprie idee, anche se tutti gli dicono che sta sbagliando.
Gli insegni ad essere gentile con le persone gentili e rude con i rudi.
Cerchi di dare a mio figlio la forza per non seguire la massa, anche se tutti saltano sul carro del vincitore.
Gli insegni a dare ascolto a tutti gli uomini,
ma gli insegni anche a filtrare ciò che ascolta col setaccio della verità, trattenendo solo il buono che vi passa attraverso.
Gli insegni, se può, come ridere quando è triste.
Gli insegni che non c’è vergogna nelle lacrime.
Gli insegni a schernire i cinici ed a guardarsi dall’eccessiva dolcezza.
Gli insegni a vendere la sua merce al miglior offerente, ma a non dare mai un prezzo al proprio cuore e alla propria anima.
Gli insegni a non dare ascolto alla gentaglia urlante e ad alzarsi e combattere, se è nel giusto.
Lo tratti con gentilezza, ma non lo coccoli, perché solo attraverso la prova del fuoco si fa un buon acciaio.
Lasci che abbia il coraggio di essere impaziente.
Lasci che abbia la pazienza per essere coraggioso.
Gli insegni sempre ad avere una sublime fiducia in sé stesso,
perché solo allora avrà una sublime fiducia nel genere umano.
So che la richiesta è grande, ma veda cosa può fare.
E’ un così caro ragazzo, mio figlio!

-----.....-----
Quale chiosa per questo difficilissimo e delicato argomento potrebbe essere più giusta ed opportuna del commento di una mamma, di un'amica blogger delicata e sensibile,  Catherine Sinclair (alias Mari di "dalla mia terra alla tua" ), che mi ha letteralmente commossa dando voce ai miei sentimenti di insegnante verso i miei studenti ormai genitori in campo?
Uso le sue parole per dire GRAZIE.

"Grazie cari alunni di esserci stati in questo cammino,
grazie di averci ricordato con la vostra presenza che
educare è accompagnare e poi lasciare...."

E' il messaggio  delle maestre a suo  figlio (e a tutta la sua classe) alla fine del ciclo scolastico della scuola elementare dopo cinque anni di conquiste reciproche.
Ecco, forse è meglio riportare tutto il testo.
"Il tempo è passato velocemente.
Ogni giorno si è aggiunto al successivo
come le perline colorate in un filo che non diventa mai collana.
Un filo aperto sull'oggi che è già domani,
che si allunga, si intreccia, si rompe, si disfa e di nuovo si tesse
in una lunga tela che ci racconta nella storia semplice di questi cinque anni insieme.
Una tela che ci porteremo sempre con noi e ci dice che quel filo, come quello di un aquilone
ora lo dobbiamo lasciare andare, perchè lo chiama un altro vento che
lo spingerà lontano.
Un'opera incompiuta la nostra, incompleta, aperta al domani.
Così deve essere! Le vostre maestre si fermano qui.
Mettiamo il punto. Punto e basta!
Perchè la nostra è una storia che continua.
Belli, irripetibili siete stati per noi, diversi ed unici nel modo d'essere,
ma uguali nel sentimento che proviamo per ciascuno di voi.
Dove noi finiamo, in un altro modo, inizia il vostro futuro.
Grazie cari alunni di esserci stati in questo cammino,
grazie di averci ricordato con la vostra presenza che
educare è accompagnare e poi lasciare...."


Grazie Mari

sabato 7 settembre 2013

"nave da buon pilota governata è strano caso che si rompa a scoglio" .VARDIELLO


ovvero "Galletto",  il personaggio più presente nella mia prima infanzia. Fiaba della tradizione popolare narrata in tutto il meridione d'Italia e inserita da G.B. Basile nel suo Pentamerone.
L'ho ascoltata in molti dialetti e da persone che non dimenticherò mai, e sì mi sarà proprio difficile dimenticare Vardiello.



Ecco il testo pubblicato su http//pinu.it, integralmente e che secondome è il più vicino a quello recitato da V. DeSica nel video 



Vardiello

Grannonia d’Aprano fu donna di gran giudizio, ma aveva un figlio, chiamato Vardiello, il più scempiato semplicione di quel paese. E nondimeno, perché gli occhi della mamma sono stregati e travedono, essa gli portava un amore sviscerato, e se lo covava sempre e lisciava, come se fosse la più bella creatura del mondo.
Aveva questa Grannonia una chioccia e sperava di ottenerne una bella schiusa di pulcini e ricavarne buon profitto. E un giorno, dovendo allontanarsi per una faccenda, disse al figlio:
- Figlio bello di mamma tua, vieni qua, ascolta, abbi gli occhi su questa chioccia e, se si leva a beccare, bada a farla tornare al nido, altrimenti le uova si raffreddano e tu non avrai né cocchi né pulcini.
- Lascia fare a quest’uomo – rispose Vardiello – perché non hai parlato a sordo.
- Ancora – soggiunse la mamma – vedi figlio benedetto, che dentro quell’armadio c’è un vaso verniciato con certa roba velenosa. Guarda che il Tentatore non ti mettesse in capo d’andarla a toccare, perché tu stenderesti i piedi!
- Non sia mai! – rispose Vardiello – veleno non mi pigli! E tu savia con la testa pazza, che me lo hai avvisato; perché, veramente, potevo capitarci, e non c’era né spina né osso che m’impedisse di farlo scendere nello stomaco.
Volte che ebbe le spalle la mamma, rimase Vardiello, il quale, per non perder tempo, andò nell’orto a scavare certi fossetti coperti di fuscelli e terra da farvi cader dentro i fanciulli; quando, nel meglio del lavoro, s’accorse che la chioccia se n’andava passeggiando fuori della camera.
Ed egli subito a gridare: - Sciò, sciò, via di qua, passa là! – Ma la chioccia non si ritirava; e Vardiello, vedendo che la gallina aveva dell’asino, dopo lo “sciò sciò” si mise a battere i piedi; dopo lo sbattimento dei piedi, a gettarle dietro il suo berretto; e dopo il berretto, le scagliò un matterello, che, colpitala in pieno, la fece cadere in agonia e irrigidire le zampe.
La mala disgrazia era ormai avvenuta e Vardiello pensò di portar rimedio al danno, onde, facendo di necessità virtù, affinché le uova non si raffreddassero, si sbracò subito e si sedette sulla covata; ma, premendola col deretano, la ridusse a frittata.
Visto che egli l’aveva fatta doppia di figura, fu sul punto di dar la testa nelle mura. Ma, poiché infine ogni dolore torna a boccone, sentendo uno sfinimento allo stomaco, si risolse a cacciarvi dentro la chioccia. E perciò, spiumatala e infilzatala a un bello spiedo, accese un gran fuoco e cominciò ad arrostirla; e quando vide che era quasi cotta, affinché tutto fosse pronto a tempo, stese un bel canovaccio di bucato sopra un vecchio cassone e, preso un orciuolo, scese in cantina a spillare un caratello di vino.
Ma, nel meglio del versare il vino, udì un rumore, un fracasso, uno scompiglio per la casa, che pareva un passaggio di cavalli armati; e, tutto sbigottito, voltati gli occhi, scorse un gattone che aveva arraffato la chioccia con tutto lo spiedo, e un altro gatto gli era dietro, gridando per aver la sua parte.
Vardiello, per impedire questo danno, si lanciò come leone scatenato sul gatto; e, per la fretta, lasciò sturato il caratello.
Dopo aver giocato a “corrimi dietro” per tutti gli angoli della casa, ricuperò la gallina; ma intanto il vino del caratello scorse tutto a terra.
Tornando alla cantina e visto di averla fatta grossa, anch’esso la botte dell’anima dei cannelli si mise a piangere .
Ma, poiché il giudizio lo aiutava, per rimediare al danno, e per far che la madre non si avvedesse di tanta rovina, prese un sacco pieno pieno colmo colmo, raso raso di farina e lo andò spargendo sul bagnato.
Con tuttociò, facendo il conto sulle dita dei disastri accaduti, pensando che, per aver commesso eccessi di asineria, perdeva il giuoco della grazia di Grannonia, prese ferma risoluzione di non lasciarsi trovar vivo dalla madre. Tolse dunque dall’armadio il vaso con le noci conciate, che quella gli aveva detto esser veleno, e non ne levò la mano fintanto che non ne scoperse la patina lustra. E, riempitosi bene la pancia, si ficcò dentro il forno.
Intanto, tornò la madre e, dopo aver picchiato per un pezzo, non sentendo alcuno muoversi, dette un calcio alla porta ed entrò. E si mise a chiamare a gran voce il figlio; e, poiché nessuno rispondeva, immaginò una disgrazia, e, crescendo l’ambascia, levò forti le grida:
- O Vardiello, o Vardiello, sei diventato sordo che non odi? la malattia alle gambe o alla bocca che non rispondi? Dove sei, viso da forca? Dove sei squagliato, mala razza? Che ti avessi affogato in fasce quando ti feci! –
Vardiello, che udì questo grido, finalmente, con una vocina pietosa, disse:
- Eccomi qui, sto dentro al forno, e non mi vedrete più, mamma mia! –
- Perché? – domandò la povera madre.
- Perchè mi sono avvelenato – replicò il figlio.
- Ohimè – soggiunse Grannonia – e come hai fatto? E che motivo hai avuto di fare quest’omicidio, e chi ti ha dato il veleno?
E Vardiello le raccontò a una a una, tutte le belle prove che aveva compiute, e per le quali voleva morire e non restare più al mondo bersaglio di mala fortuna.
Udendo queste cose, la madre scura si vide, amara si vide, ed ebbe da fare e da dire per levare di capo a Vardiello quell’umore malinconico. E poiché gli portava tenerezza grande, con dargli alcune altre cose sciroppate gli tolse dal cervello la paura delle noci conciate, che non erano veleno, ma acconciamento di stomaco. Così, calmatolo con buone parole, e fattegli mille carezzette, lo tirò fuori dal forno.
Pensò poi, per quietarlo del tutto, di affidargli una bella pezza di tela, affinché la portasse a vendere, ammonendolo di non trattare il negozio con persone di troppe parole.

- Brava! – disse Vardiello – ti servirò profumatamente, non dubitare – E, presa sotto il braccio la tela, si avviò verso la città.
Andava in giro con la sua mercanzia per le strade e le piazze di Napoli, gettando il grido:
- Tela, tela! – Ma, a tutti quelli che gli si avvicinavano domandando : - Che tela è? – subito rispondeva: - Non fai per la casa mia, che hai troppe parole. - E se un altro gli domandava: - A quanto la vendi? – lo chiamava chiacchierone, e che lo aveva stordito e gli aveva rotte le tempie.
In ultimo, scorgendo in un cortile di una casa, disabitata perché frequentata da uno spiritello, una statua di stucco, il poverino, spedato e stracco dal tanto andare in giro, si sedette sopra un muricciolo; e, non vedendo entrare e uscire nessuno da quella casa, che pareva un villaggio saccheggiato, pieno di meraviglia, disse alla statua: 
-Di su, camerata, abita alcuno in questa casa? - E poiché quella non rispondeva, gli parve persona di poche parole, e subito le propose: - Vuoi comprare questa tela? – Io te la darò a buon mercato. –
E la statua zitto, e lui: - Affè, ho trovato quello che andavo cercando! Prendila e falla esaminare, e dammene il prezzo che ti piace: domani torno pei quattrini. –
Ciò detto, lasciò la tela sul muricciolo al quale s’era seduto; e il primo che si trovò a passare e che entrò in quel cortile…trovata quella bella ventura se la portò via.
Quando Vardiello fu tornato alla madre senza tela, ed ebbe raccontato il caso, la povera donna si sentì scoppiare il cuore. E cominciò a rimbrottarlo:
- Quando metterai il cervello a sesto? Vedi quante ne hai fatte? Ricordatene! Ma la colpa è, prima di tutto mia, per essere troppo tenera di cuore, non t’ho fin dal primo momento raddrizzato con una buona bastonatura: e ora m’avvedo che medico pietoso fa la piaga incurabile! Ma tante me ne hai fatte che alla fine c’incapperai: e allora i conti saranno lunghi! –
Vardiello dal canto suo badava a dire:
- Zitto, mamma mia, che non sarà quel che tu dici. Avrai ben altro che tornesi coniati nuovi! Credi forse che vengo da Salerno e che non sappia il conto mio? Ha da venir domani! Di qui a Belvedere non c’è molto, e vedrai che so mettere il manico a questa pala! –
Al mattino, quando le ombre della notte perseguitate dagli sbirri del sole sfrattano il paese, Vardiello si portò al cortile dove era la statua, e le parlò:
- Buon dì, messere! Non t’incomoda di darmi quei quattro spiccioli? Orsù, pagami la tela! –
Ma poiché la statua se ne rimaneva muta, egli raccattò un sasso e lo scagliò di tutta forza proprio in mezzo allo sterno di quella, tanto che le ruppe una vena; e questa fu la salute della sua casa. Perché rotti certi ammassi d’intonaco, gli apparve agli occhi una pignatta piena di scudi d’oro, che egli levò con le sue mani e si diède a una corsa a scavezzacollo verso casa sua.
Entrò gridando: - Mamma, mamma, vedi quanti lupini rossi! Quanti neh! Quanti! –
Ma la madre, nell’accogliere la fortuna di quegli scudi così impensatamente guadagnati, riflettè subito che il figlio sarebbe andato a raccontare la cosa, e provvide al rischio.
Disse, dunque, a Vardiello, che si fosse messo innanzi alla porta per vedere quando passava il ricottaro, poiché le bisognava comprare un litro di latte.
Vardiello, che era un gran bonaccione, subito si sedette alla porta; e la madre, dalla finestra di sopra, gli fece grandinare addosso, per oltre mezz’ora, più di sei rotoli d’uva passa e di fichi secchi. Ed egli li raccoglieva gridando: 
- Mamma, o mamma, prendi conche, porta tinozze, porgi canestri, che, se dura questa pioggia, ci faremo ricchi! – E quando se ne fu ben riempito il ventre, salì in camera e si buttò a dormire.
Avvenne che un giorno, litigando due del popolo, gente di malaffare, per la pretesa di uno scudo d’oro che avevano trovato a terra, capitò in quel punto Vardiello che disse:
- Come siete arciasini a far tante chiacchiere per un lupino rosso di questa sorta! Io non ne faccio neppure stima, perché ne ho trovato per mio conto una pignatta piena piena.! –
La Corte, informata del detto e messa in sospetto, lo mandò a chiamare e lo sottopose a processo per saper come, quando e con chi avesse trovato gli scudi di cui aveva parlato.
Vardiello rispose: - Li ho trovati in un palazzo, nel corpo di un uomo muto, in quel giorno che ci fu pioggia di uva passa e di fichi secchi. –
Il giudice che sentì questo parlare a vanvera, chiuse la causa e decretò che fosse mandato all'ospedale, che era il suo giudice competente.
Così, l’ignoranza del figlio fece ricca la madre, e il buon giudizio della madre riparò all’asinità del figlio, per la qual cosa si vede chiaramente che:

nave da buon pilota governata
è strano caso che si rompa a scoglio.


Illustrazione di Warwick Goble"



Qui troverete il testo originale de "lo cunto de li cunti" di g. b.Basile ne  letteraturaitaliana.net Volume_6/t133



Riporto integralmente la  recensione, molto chiara e completa sul Pentamerone di G. B. Basile, pubblicata su www. parados.it (http://www.parodos.it/news/basile.htm). da Raccolta di novelle di Giambattista Basile da cui è tratto il nostro "cunto"
"Pubblicata postuma con l'anagramma di Gian Alesio Abbatutis, l'opera ebbe anche il sottotitolo di Pentameròn o Lo trattenemiento de peccerille; è in dialetto napoletano, con inserite quattro egloghe, che sono altrettante satire: La coppella (gli uomini sono in realtà diversi da quel che paiono), La tenta (sferza l'ipocrisia), La vorpara (condanna l'avidità di guadagno), La stufa (le noie dei piaceri umani). Si racconta la storia di Zoza, principessa melanconica, che non ride mai: un giorno vede da una finestra un ragazzo litigare con una vecchia; questa fa a un certo momento un gesto così volgare e osceno, che la stessa Zoza si mette a ridere. La vecchia allora la maledice e le dice che non avrà più pace fino a che non sposerà il principe di Camporotondo; così la principessa si mette in viaggio con tre oggetti incantati e finalmente trova il principe, che è in catalessi, dentro una tomba con accanto un'anfora: solo se l'anfora si riempirà di lacrime, Zoza potrà svegliare il principe; ma a metà dell'opera Zoza si addormenta. Ne approfitta una schiava, che colma il vaso di lacrime: il principe si sveglia e la sposa. Grande è la disperazione di Zoza, la quale con l'aiuto di uno degli oggetti incantati riesce a infondere nella moglie del principe un incontenibile desiderio di sentire raccontare favole; vengono invitate alcune vecchie narratrici; l'ultimo giorno si presenta anche Zoza, la quale rivela la vera storia e riesce così a sposare il principe. Cinque sono le giornate delle favolatrici, ciascuna composta di dieci novelle. Considerata dai fratelli Grimm una bella raccolta di favole, il Pentameròn è la vera espressione della voce del popolo. Si ispira evidentemente alla raccolta di novelle (Decameron) di Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia); i narratori sono dieci vecchiette caratterizzate da difetti fisici (Zeza è sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, ecc.).
Più che novelle, le storie narrate da Basile sono fiabe tratte in genere dalla tradizione popolare, che l'autore trasforma però in prodotti letterari, con l'uso di un dialetto più colto di quello effettivamente parlato e con l'inserimento di notazioni ironiche e commenti moralistici.Infine la scelta di scrivere in lingua napoletana corrisponde alla tendenza propria dell'età barocca di sperimentare nuovi e più attuali modi espressivi."
Se si vuole completare il discorso su G. B. Basile e saperne di più,  qui  c'è tutto il discorso critico interessantissimo scritto da Michele Rack .

lunedì 2 settembre 2013

ODIO L'ESTATE

Così ora lo posso dire!
... ora che il trantran estivo è finito, niente più voci, vocine care e ore ai fornelli che hanno riempito la mia quotidianità...


Bella vero?
Ha accompagnato la mia adolescenza ed anche la mia prima giovinezza.
La voce calda di Bruno Martino cullava i sogni di tutti giovanissimi, giovani e meno giovani. Cantautore di grande valore e di fama mondiale, faceva consumare i pavimenti delle balere sul mare in estate e in tutti i mesi dell'anno nelle sale da ballo nei famosi anni sessanta.
Sogni, amori, avventure di estati bellissime di una Italia meno sofisticata ma più bella e più genuina. Ritmi lenti a dimensione umana, meno stress e più ecologia. e.....tanta speranza!

Ora non mi resta che godermi un nostalgico settembre con quest'altro meraviglioso pezzo, colonna sonora della mia giovinezza,
 e posso dire amo settembre!



...e perchè no, anche queste belle "Impressioni di settembre" della Premiata Forneria Marconi che mi ha suggerito l'amico Giuseppe Scano. Bella musica e un settembre con una natura così suggestivamente romantica, come quelli che ho passato da studentessa a Urbino nelle Marche.